Un nuovo appuntamento alla scoperta dei contenuti del Master in Design Managament, coordinato da Francesca Gollo. Stavolta abbiamo coinvolto Marco Guarna, docente e Founder di Diatomea – Research Innovate Impact, per trattare uno degli aspetti fondamentali che riguarda ogni società, a prescindere dal settore in cui è operativa e dalle sue dimensioni: la creazione del team di lavoro.
Disegnare un proposito ad alto impatto sociale e ambientale serve a rendere i team resilienti.
Ci sono delle questioni, relative alla maniera migliore di costruire e gestire un team, che mi hanno accompagnato lungo tutta la mia esperienza professionale.
Quali sono i fattori da considerare e con quale scala di priorità? Quali sono le reali sinergie e prevalenze tra gli oggetti solo parzialmente sovrapposti e inestricabilmente interdipendenti prodotto/ azienda/ team?
In altri termini, nel lavoro di mentorship cosa rappresenta il cuore dell’intervento? La selezione? L’assegnazione di ruoli? Lo sviluppo di un forte senso di ingaggio e di appartenenza?
Tornando ciclicamente su queste domande, mi rendo conto che si tratta di ambiti dinamici e in continua evoluzione e quindi ambigui e perciò stesso ricchi di potenzialità. Degli elementi sono però assodati e costituiscono ormai strumenti importanti della mia cassetta degli attrezzi.
Prendiamo, ad esempio, il caso dell’imprenditorialità innovativa e quindi delle startup nella fase iniziale: precedente e subito successiva alla costituzione (una delle fasi sulle quali ho lavorato di più, in programmi di incubazione, accelerazione, laboratori di progettazione collaborativa, etc.).
Tre sono i macro-elementi che vengono subito in gioco, sui quali bisogna lavorare accuratamente e fare delle valutazioni obiettive. L’idea, il mercato e il team.
È contro-intuitivo, ma basato sui fatti, che l’elemento con maggiore potenzialità di impatto (positivo o negativo) è il team.
Intanto, come importanza della pluralità, del collettivo. La narrativa eroica dell’inventore, capitano d’impresa, geniale e solitario è cattiva narrativa, clamorosamente contraddetta in ogni campo: dalla ricerca scientifica, all’innovazione tecnologica, all’innovazione sociale. Ma subito dopo perché ci sono delle competenze da avere necessariamente dentro il team, che non basterà acquistare dal mercato in una delle modalità possibili.
Inoltre, bisogna che vi siano altre e specifiche competenze diffuse, ovvero presenti in ogni membro del team: una sorta di terreno comune culturale e valoriale, senza il quale non c’è agire sinergico perché non c’è vera comunicazione.
Ecco che tutti i founder, operativi e non, dovranno condividere la visione aziendale e viverla con impegno, focalizzare gli sforzi su ciò che è essenziale, mettere in campo abilità francamente realizzative.
Il capo della tecnologia è il depositario della metodologia di sviluppo, deve essere in grado di istruire e coordinare i programmatori, di monitorare i progressi. Mentre il CEO della startup ha primariamente responsabilità della comunicazione esterna, deve rilevare prontamente tensioni e problematiche nel team e far sì che dal team vengano affrontate. Le sue competenze operative consentono anche di individuare ciò che non sta funzionando, comunicarlo onestamente e smettere di farlo.
Quindi, è necessario avere una cultura condivisa, che serve anche a costruire una riconoscibilità della startup in ogni sua espressione e poi delle competenze ruolo specifiche. Per individuarle e valutarle ci si potrà giovare anche di reattivi psicometrici, individuali e di team. Tutto ciò non per mettere i candidati in fila, alla velleitaria ricerca di individui più meritevoli, con caratteristiche eccezionali (ritengo che il concetto di talento abbia creato più danni che vantaggi nella prassi aziendale, così come nelle startup). Piuttosto, gli assessment servono bene per raccontarci tante cose dei membri del team che altrimenti impiegheremo molto tempo per conoscere e che quindi possiamo usare come base per discussioni allargate, che porteranno a decisioni condivise.
Ad un livello sovraordinato, rispetto alle dinamiche della cultura e delle competenze, sta l’elemento della motivazione: segnatamente della distanza o convergenza tra le motivazioni dell’individuo e quelle del team.
La motivazione professionale (la ragione che ci spinge a lavorare) dell’individuo assume tre forme principali: motivazione al denaro e al vantaggio economico, motivazione allo status, motivazione al proposito.
Ognuno di noi è, in genere mosso da una combinazione dei tre elementi, ma caratterizzato dalla prevalenza, più o meno pronunciata, di uno dei tre. I ricercatori definiscono il proposito come l’intenzione persistente a raggiungere una meta di lungo periodo che sia insieme personalmente significativa e realizzi un cambiamento positivo nel mondo. Quindi le mete che attivano la motivazione al proposito sono quelle potenzialmente in grado di cambiare la vita delle persone (Brekley University, GGSC, 2020).
Bene, diversi ed autorevoli studi ci dicono che non solo il 73% degli individui orientati al proposito sono soddisfatti del loro lavoro, contro solo il 64% dei non orientati al proposito, ma anche che (ciò che qui interessa) il 58% delle aziende provviste di un chiaro ed articolato proposito hanno riportato crescite maggiori del 10%, contro solo il 42% di quelle che non mettono il proposito tra le loro priorità (Beacon Institute, 2015).
Per tutto ciò, sono convinto che, nella costruzione di un team, dedicare del tempo e delle procedure strutturate alla formalizzazione non solo delle motivazioni condivise, ma proprio di un proposito comune che collochi l’azione del team nei confronti delle comunità, dell’ambiente, della società e la situi in una prospettiva temporale di medio/ lungo periodo sia fondamentale per avere un team dinamico e resiliente e per il prosperare futuro della startup.