Nuovo appuntamento del format “Fashion & Sustainability – Let’s Talk”.
Guenda Cermel, coordinatrice del corso in Fashion Design Sostenibile, si confronta con Massimo Brandellero, Founder dell’impresa innovativa The ID Factory.
Caso studio rilevante del settore Fashion, The ID Factory aiuta tutte le persone che lavorano “dietro” al prodotto a comunicare tra loro, mettendo in contratto oltre 500 aziende per rendere la supply chain tracciabile e trasparente. Una piattaforma innovativa che nasce dalla crescente domanda di trasparenza da parte dagli acquirenti: l’obiettivo è quello di fornire ai brand del mondo del fashion – con supply chain molto complesse e dislocate per il mondo – un servizio che permetta di monitorare tutti i flussi e movimenti che accadono: ordini, date consegna, conferme d’ordine e spedizioni, dal fornitore fino al cliente.
The ID Factory è impegnata nel supporto e nell’implementazione della sostenibilità del fashion. Come si iscrive in questa catena del valore il contributo del fashion designer? Quali sono le domande cruciali che dovrebbe porsi?
Un fashion designer in questo panorama nell’industria della moda prima di tutto deve guardare senza preconcetti a quello che la moda sostenibile è.
Ci sono ancora bias cognitivi che la caratterizzano come limitativa o non estetica, quando invece oggi la realtà è che la tecnologia, la ricerca e l’innovazione si rivelano come preziosi alleati per il designer e per la sua creatività.
Inoltre il designer deve avere la consapevolezza che le sue scelte hanno un impatto molto importante se sono fatte includendo i principi fondamentali del circular design.
The ID Factory, con i suoi servizi, incide lungo tutta la filiera moda, in particolare a monte, nel tracciare la supply chain, e a valle, nel fornire informazioni trasparenti al mercato. In mezzo c’è la visione dell’imprenditore e la consapevolezza del cliente. Come si evolve la mentalità corrente verso una maggiore coscienza degli impatti delle proprie scelte fashion, sia produttive, che di consumo?
Lato clienti, la consapevolezza ha innescato un meccanismo per cui ci si continua a informare, si approfondisce il tema e si pretendono dai brand trasparenza e risposte.
Sono sicuramente cambiate anche le abitudini di acquisto: una persona informata tende a comprare meno e meglio, privilegiando realtà artigianali, usato o second hand. Inizia ad esserci più educazione attorno al costo di un singolo prodotto, a cui si guarda non solo in termini di prezzo, ma anche di valore.
Stessa cosa per quanto riguarda i processi produttivi e il desiderio di informarsi su come prendersi cura dei capi per aumentarne la durata.
Possiamo dire che lo shopping sta piano piano tornando ad essere un momento di cui godere, un’occasione coinvolgente, specie se i consumatori hanno accesso anche al racconto della storia che c’è dietro al prodotto.
In questo senso sta cambiando la visione imprenditoriale e delle aziende: c’è tutto l’interesse di venire incontro ai desideri dei consumatori attraverso una narrativa coinvolgente che riguarda il singolo capo, dalle materie prime con cui è realizzato, che prosegue lungo tutta la filiera, per arrivare al prodotto finito.
Tutto ciò è possibile tramite Digital ID o passaporto di prodotto, che tramite la scansione di uno smart tag, ne racconta la storia: come è nata l’idea, dove e chi l’ha realizzata e, nel caso di un prodotto riciclato o second hand, chi lo ha indossato prima di noi o, addirittura, cos’era il prodotto prima della sua attuale forma. Grazie alle tecniche attuali, uno zaino può diventare un costume, un paio di occhiali in possono trasformarsi in una giacca.
A proposito di filiera, notiamo un cambiamento nel modo in cui il brand concepisce tutti gli altri attori: non vengono più visti come semplici fornitori, ma come partner di una catena di valore. Tutti sono interdipendenti, perché il contributo di ognuno permette di arrivare all’obiettivo finale, che è e deve essere condiviso. C’è quindi più attenzione alla componente umana, alle condizioni dei lavoratori, all’educazione, all’inclusività e alla parità di genere.
Senza dimenticare l’ambiente: c’è molta più attenzione riguardo gli aspetti di compliance, alla gestione degli sprechi e alla prevenzione dell’invenduto.
Non voglio dire che questa sia oggi la regola nell’industria della moda ma si percepisce un forte cambiamento in atto in questa direzione
Ed è una piega che fa ben sperare per il futuro.
Come si può contrastare il Greenwashing in maniera propositiva?
Il Greenwashing è qualcosa di pervasivo, che riguarda ognuno di noi. Una bestia che si nasconde nell’ombra e si nutre di inconsapevolezza.
Proprio di recente abbiamo tenuto un panel discussion dal titolo “How to fight Greenwashing”, che ha registrato molte adesioni, anche da parte di profili alti del settore moda.
Abbiamo affrontato il tema sia dal punto di vista dei brand, ma anche di quello della comunicazione e legale, con ospiti del mondo B Corp.
La soluzione a cui siamo arrivati è che per combatterlo dobbiamo essere chiari, sinceri e trasparenti. In una parola: abbiamo bisogno dei dati.
Il mondo monda è vittima di un retaggio basato su slogan e claim eclatanti: fino a poco tempo fa i dati erano utilizzati per difendersi dalle richieste della legge, della compliance o degli investitori di turno.
Oggi i dati, invece, possono essere usati in maniera proattiva, come se fossero una spada, anziché uno scudo.
Più siamo ossessionati dai dati, più li raccogliamo, processiamo e mettiamo a sistema, e più le zone d’ombra si diradano. I dati ci danno una visione chiara di quello che abbiamo fatto, ma soprattutto dove stiamo andando. Di conseguenza ci aiutano ad aggiustare il tiro.
Possedere informazioni strutturate e certificarle grazie al supporto della tecnologia, che le rende immutabili, significa poter comunicare al consumatore finale, ma anche a tutti gli stakeholder, senza paura di essere messi in discussione.
Significa raggiungere la trasparenza. Quando si è pienamente trasparenti, si è già andati anche oltre la fiducia, rincorsa da molti, e questo è un lusso che hanno ancora in pochi.
Il paesaggista filosofo Gilles Clément dice che disegnando un giardino è bene fare quanto più a favore della natura e quanto meno contro. È una metafora applicabile anche al concetto di sostenibilità nella moda. Quali sono i mezzi che The ID Factory pone al servizio delle aziende fashion per diventare più sostenibili?
C’è una citazione di William E. Dening, che condivido totalmente, che dice: “Senza dati sei solo un’altra persona con un’opinione.”
I dati di per sé non sono né buoni, né cattivi: la differenza sta tutta nel come si usano, per quali scopi.
Il nostro obiettivo come The ID Factory è quello di rendere l’industria della moda più tracciabile e trasparente possibile e raggiungere questo obiettivo significa mettere i brand nella condizione di avere il controllo. Ottenere visibilità lungo la filiera, grazie alla raccolta di dati in modo strutturato, significa poter fare delle scelte strategiche in modo tempestivo, chiaro e soprattutto nella direzione di ciò che è veramente importante per il proprio business.
Senza visibilità, senza dati non solo è molto complesso prendere decisioni informate, ma diventa impossibile individuare le criticità e porvi rimedio.
Grazie alla tracciabilità i brand hanno il pieno controllo sulle loro scelte, possono garantire trasparenza ai loro clienti, sono consapevoli dell’impatto che hanno in qualunque momento.
The ID Factory si serve della tecnologia come abilitatore, uno dei suoi punti di forza è l’elaborazione di un passaporto digitale dei capi, che permette al cliente di reperire tutte le informazioni che impattano sulla sua sostenibilità: materiali, fornitori, etc. Oggi è utilizzato solo per le nuove produzioni o anche nel campo dell’up-cycle/ re-cycle? Prevedete che un domani possa dare informazioni anche sul design?
Ad oggi il product passport è usato solo per nuove produzioni con l’obiettivo di dare visibilità in tempo reale al brand e agli attori di filiera sui processi produttivi, con l’opportunità di condividere le informazioni sull’origine del prodotto anche al consumatore finale.
L’utilizzo di un identificativo univoco associato ai materiali e al prodotto finito (QR Code) permette, inoltre, la stima puntuale in and out del materiale usato in produzione, al fine di avere visibilità sullo scarto di produzione e permettere sulla base di tali informazioni l’implementazione di sistemi per l’industrial upcycling del pre-consumer waste identificato e tracciato lungo la filiera.
In altre parole le opportunità di up-cycling sono legate non al post consumer (ad esempio, un vestito gettato) ma al pre consumer (ovvero gli scarti da taglio o deadstock). Quanto alle informazioni sul design, possono essere fornite nel momento in cui il brand le ritiene determinanti, per cui dipende molto da caso a caso. In funzione di questo The ID Factory ha sviluppato un sistema dinamico di raccolta dati, che può essere personalizzato in base alla tipologia di dati utili al brand, che ritiene di interesse per i suoi consumatori finali.
Il valore aggiunto della nostra soluzione è l’automazione della raccolta dati, al fine di facilitare la condivisione delle informazioni.
Il punto 17 dell’Agenda Onu 2030 per lo sviluppo sostenibile, si riferisce al lavorare insieme su obiettivi comuni. The ID Factory è una BCorp. Avete un network di aziende fashion unite dagli stessi principi? Quali sono i vostri obiettivi comuni? Come li monitorate?
Siamo diventati B Corp nel giugno 2021 dopo un grande lavoro, ma siamo sempre stati convinti che la certificazione non fosse un punto di arrivo, ma l’inizio di un nuovo percorso. Tra le altre cose ci siamo resi conto che per generare un impatto positivo, che faccia davvero la differenza, non si può essere da soli: c’è bisogno di scambio continuo, contaminazione, confronto, supporto.
Per questo, pochi mesi dopo l’ottenimento della certificazione abbiamo lanciato un nuovo progetto, B Corp B Fashion. B Corp B Fashion è la prima community all’interno dell’ecosistema B Corp che punta a riunire in un unico posto tutte le B Corp del mondo moda, ma anche quei brand fashion che vogliono diventarlo.
Vogliamo promuovere un modello di moda rigenerativa e sostenibile e lo facciamo condividendo tra i nostri iscritti best practices, idee e spunti, che possono venire sia da realtà consolidate, ma anche da coloro che si sono appena affacciati al mondo delle B Corp.