Un testo di Fabrizio Pizzuto, critico, storico dell’arte e coordinatore dell’Academic Master in Art Curating and Management.
L’uscita del quadro quando appare è sempre meno un’insicurezza, quanto più un’indagine e una necessità.
Soprattutto le nuove generazioni sono affascinate dalla ricerca della forma, dal bisogno di comprendere cosa sia necessario accada all’interno di essa.
In altre parole dove un’immagine possa o debba andare. Un’epoca critica un po’ bislacca, orfana da molti anni dei migliori pensatori italiani della forma e dell’estetica, cerca continuamente di non capire la reale profondità della composizione, continuando erroneamente a interrogare significati simbolici, giustificazioni, anti formalismi, e pagando, forse, una certa cattiva abitudine ad appoggiarsi su materie non percettive.
Non è quasi mai un rapporto concettuale con l’immagine pittorica quello che si instaura oggi, ma fisico. Non si pensa ad un simbolo da aggiungere ad una composizione, ma ci si inzacchera gli occhi e le mani di linee e forme. In questo scenario il colore genera l’immagine per regole interne e costruisce visione.
Il disegno è talvolta un ricordo veloce, una messa a punto, un appunto che non serve ad un nuovo sviluppo, bensì funziona in sé; come dire un quaderno o una poesia, una forma letteraria completa nella sua velocità. Non è epoca di simbolismi, né di citazionismi. Sembra necessario, e nei fatti avviene spesso, portare la pittura a qualcosa di vivibile, ritornare alla sensazione.
Inutile anche cercare narrazioni o appigli social-culturali. Si fa strada nella pittura (e perfino nelle installazioni con certi raffinati attraversamenti) la ricerca di un’immagine “della sensazione”, di una presenza davanti alle cose, forse, ecco, solo al limite, ricordandone altre, percependosi guardatore-sognatore.
Dal mondo reale si prende eccome, ma si tratta piuttosto di qualcosa di guardato, pensato o ricordato, ma lasciato andare. L’immagine, che siano linee concrete o una casa, porta con sé qualcosa che resta, che rimane quando non c’è più nulla, persistenza nella retina.
Autrici: Giulia Romolo e Claudia Evangelista
Titolo opera: Atarassia’nfosa
Installation Vieux
Tolta la spettacolarizzazione continua di questo oggi non rimane, come si poteva pensare, un pensiero veloce. Invece davanti all’immagine ritorna la brughiera, la nebbia, il bosco, i giocatori di carte di Cezanne, una distesa di De Stael, forse, perché no, un supermercato, un fumetto, una serie tv. Tutto questo, in alcuni casi, si impasta alla composizione ma non ha più la distesa compatta e colorita del pop classico, neppure ne fa riferimento. Non è, alla fine, che visione della sensazione di essere vivi oggi, di essere sempre stati vivi, di non essere sicuri di esserlo. Nemmeno l’oggetto racconta più, non nel senso classico che ci aspetteremo. Un legno non è un bosco o il ricordo di un albero ma è l’essere legno, la legnosità, il noumeno che parla del fenomeno solo in referenza. Tanto più c’è la possibilità che l’immagine abbia grumi, oli, resine, o fantasmi. Detto questo se sia in acrilico o in olio fa tutta la differenza del mondo. La tecnica lavora con la velocità o con la sedimentazione e con le proprietà della materia.
Il fruitore completa il quadro, molto tempo a dipingere invita al molto tempo a guardare i dettagli, l’arrovellarsi e l’arrotolarsi del colore si snodano nei gesti compiuti davanti al guardatore; d’altro canto poco tempo a schizzare e far volare i segni, invita ad una prima visione nel poco tempo per poi perdersi volando nei colori tenui o alti o bassi. Se il centro oggi è di nuovo la sensazione, l’esperire, la qualità della materia ancora di più conta tutto. Ne abbiamo persi di lavori per bassa qualità, né rendono, né brillano, né durano. Bisogna smettere di giustificarsi come colpevoli per ogni figura incoerentemente rappresentata e saperla portare verso un tempo di gestione. Dalla libertà di aggiungere luce, di mettere senza (apparente) motivo (concettuale) un segno in alto leggero, uno in basso pesante, un giallo che ti viene incontro, un grumo di colore per avere pastosità si procede fino a portare questa indagine con libertà finalmente verso stati dell’animo. Si tratta di quel qualcosa di liquido, come si liquefà senza certezze il nostro mondo, dentro al quale cercano una nuova possibilità di riscatto esperienziale.
Un silenzio infine. I luoghi silenziosi meditativi e tenui attraggono più della città. Ma attenzione non è l’esotico, non è Gaugin, forse sono i Corvi di Van Gogh, ma di più è la brughiera di Mandelli, quando non quella calorosa di Morlotti. Molto c’è di Morandi. Il coraggio e la curiosità. La presenza a se stessi. L’essere continuamente aggiornati per poi buttare la metà di queste informazioni nel dimenticatoio. L’indagare il segno e la pittura sapendo che è una grammatica, è linguaggio. Dunque procedere e fare esperienze di vita, perché serve all’uomo, al guardatore e al pittore insieme. È un problema che riguarda avere uno stile, di visione come di azione. Non mollate quando non riuscite, non c’è nulla in cui dover riuscire e non c’è niente da dimostrare, col tempo diventerà chiaro. Siate voi stessi, o è importante o non lo è, e se lo è ci tiene vivi e ci fa vivi in un oggi che insieme dobbiamo indagare.